
RIFLESSIONI SULLO YOGA#3
Il ruolo del corpo nella pratica
Il modello dei panchamaya-kosha
a cura di Andrea Gabbi
I panchamaya kosha e il ruolo del corpo nella pratica dello yoga. Nel precedente articolo abbiamo introdotto il senso della discriminazione nella prassi yoghica. Soprattutto nell’interpretazione di Patanjali, yoga è inteso come capacità di separare (viyoga), di cogliere la distinzione tra i contenuti della coscienza dalla coscienza stessa, il soggetto dall’oggetto, ciò che muta da ciò che non muta.
Si tratta di un processo di discriminazione graduale che dà luogo al disvelamento di uno spazio interiore più “ampio”, in cui i vissuti mentali ed emotivi vengono riconosciuti nella loro natura di manifestazioni condizionate e cessano di determinare in modo coatto risposte emotive e azioni. (leggi l’articolo precedente)
L’attenzione al processo discriminativo, inteso come prassi riflessiva capace di rivelare un nuovo piano dell’essere,non è appannaggio esclusivo dello yoga. Sappiamo che anche il buddhismo, pur nella molteplicità delle correnti che lo distingue, fonda la propria visione sulla possibilità per l’individuo di uscire dalla sofferenza grazie all’emancipazione dal potere condizionante dei contenuti di coscienza attraverso la pratica della consapevolezza.
Ma allora qual è la specificità dello yoga, cosa lo distingue dalle altre discipline meditative?
Proprio dello yoga è il recupero del corpo. Oggi, che tutta la comunicazione passa attraverso l’immagine e lo yoga è perlopiù trasmesso come una disciplina che prevede l’esecuzione di posizioni fisiche (asana) in cui il grado di avanzamento è misurabile attraverso la complessità delle posizioni raggiunte, questa affermazione sembrerebbe evidente. In realtà rischia di generare un grandissimo equivoco.
Cerchiamo di capire cosa si intende per corpo nell’antropologia yoghica e quale sia il suo ruolo all’interno di quel più ampio progetto di discriminazione e di emancipazione dalla sofferenza cui abbiamo già accennato.
1_I panchamaya kosha e il ruolo del corpo nella pratica dello yoga.
Nel terzo capitolo, Bhrigu Valli, della Taittirya Upanishad – uno degli scritti di riferimento della disciplina, fatto risalire ad un periodo compreso tra il 700 e il 300 a.C. – il giovane Bhrigu chiede al suo maestro, il padre Varuna, di iniziarlo alla conoscenza della propria natura, del Sé (Brahman). Così Varuna spiega al figlio che il Brahman “ è alimento (anna), respiro (prana), vista, udito, mente, parola”[1] e invita il giovane discepolo a recarsi nella foresta per comprendere attraverso la sua stessa pratica la natura delle cose. Frutto della ricerca condotta da Bhrigu è la scoperta dei cinque (pancha) livelli di manifestazione (maya) della Coscienza.

I panchamaya kosha e il ruolo del corpo nella pratica dello yoga.
Nella Tittirya Upanishad dunque viene presentato il modello dei panchamaya kosha: una visione dell’essere – e dell’uomo in quanto parte integrante dell’essere – divisa in cinque sfere, definite anche corpi o involucri (kosha). Partiamo da qui – vedendo questi cinque livelli nel dettaglio – per comprendere cosa intendiamo per corpo nello yoga.
A seguito delle sue prime pratiche Bhrigu comprende che il primo, il più evidente piano di manifestazione è quello relativo al corpo fisico, tangibile e materiale, “che il Brahman è alimento (anna)”. Annamaya-kosha è il livello espresso dalla nostra struttura fisiologica, composta di ossa, fluidi, organi, muscoli, tendini. Come richiama il nome, anna (alimento), questo è il corpo prevalentemente sviluppato attraverso l’assunzione di cibo e mantenuto in buona salute da una corretta attività fisica.
Ma il Brahman – scopre Bhrigu – è anche respiro (prana)”, un livello più sottile e meno tangibile del precedente, che anima il corpo fisico e lo rende vitale, energico. Prana indica il soffio che permea ogni essere vivente, l’energia vitale con cui entriamo direttamente in contatto attraverso il respiro. Prana, potremmo dire, è il risvolto energetico dell’ossigeno che assorbiamo attraverso l’atto del respirare ma anche forza che troviamo a disposizione nella luce solare, in luoghi particolarmente ricchi di energia come cascate, ampi spazi verdi, montagne, in riva al mare, nell’aria pulita, nel cibo, nelle buone relazioni, nei buoni pensieri, nelle giuste azioni.
Prana è ovunque e nell’uomo – secondo gli insegnamenti – si diversifica in vayu, correnti distinte deputate all’adempimento di specifiche funzioni – come l’assorbimento, l’eliminazione e la distribuzione dell’energia – che vedremo più nel dettaglio in uno dei prossimi articoli. Pranamaya kosha – questo secondo piano dell’essere – lo riconosciamo immediatamente quando riferiamo a noi stessi o ad una persona l’impressione di avere una forte energia, un’aura vibrante e luminosa.
Andando ancora più in profondità, Bhrigu scopre che l’essere si esprime anche ad un altro livello, ancora più sottile e diremmo difficile da percepire a causa della comune tendenza ad identificarsi con i suoi contenuti. Si tratta del livello della mente, Manomaya kosha. Qui corrono e fluttuano i nostri pensieri spontanei, le informazioni apprese, le immagini della memoria, le aspettative e le proiezioni future, le emozioni, le paure. Manomaya è quel vasto contenitore che processa le informazioni provenienti dai sensi, che raccoglie, mescola e agisce/reagisce, senza un reale processo discriminativo, la molteplicità di informazioni, immagini e contenuti che giungono dall’esterno, dalle esperienze quotidiane, dall’educazione.
Manomaya kosha spesso ci sfugge perché il livello d’affluenza dei nostri pensieri è talmente attivo e veloce da assorbire l’intera esperienza che noi facciamo di noi stessi e della nostra vita. Quando non consapevolizzato, il mentale viene proiettato all’esterno creando il nostro mondo, con i suoi nemici, alleati, con la sua schiera di attori investiti di ruoli e significati che risiedono, in forma di forze e pulsioni, già nella nostra interiorità. Manomaya kosha è forse uno dei ricettacoli maggiori di sofferenza ma anche luogo privilegiato per uscire dalla sofferenza quando nutrito di capacità di ascolto, consapevolezza e discriminazione.
Ed è proprio su questo piano che sia apre la quarta esperienza dell’essere di cui parla la Taittirya Upanishad: “Egli (Bhrigu n.d.r.) comprese che il Brahman è conoscenza (vijnana)”. Il corpo della conoscenza, Vinjnanamaya kosha, rappresenta un livello di discernimento, di coscienza riflessiva che consente di cogliere la vera natura degli oggetti.

Rappresentazione grafica del modello dei panchamaya kosha
Il modello dei panchamaya kosha e ruolo del corpo nella pratica yoga
La stessa conoscenza dei cinque corpi è una espressione di questo livello di essere che, grazie all’intervento di una funzione intellettuale, nutrita di ascolto e presenza meditativa, permette di iniziare quel processo di separazione (viyoga) in grado di condurre ad una più lucida esperienza della realtà. Entrando nel campo di Vijnanamaya kosha il soggetto sperimenta una nuova postura interiore caratterizzata da una maggiore libertà e autonomia dal potere condizionante della mente e dei suoi fantasmi.
Vijnanamaya è il livello della attività discriminativa intesa a nostro giudizio sia come ragione – capacità di distinguere, separare, ordinare – sia come Intelligenza – Nous dicevano i greci -, capace di rivelare un ordine di significati già inscritto nelle cose (Dharma), un ordine che struttura da un punto di vista trascendentale il reale. Segue da questa interpretazione che Vijnanamaya kosha è sia fonte di discriminazione ma anche porta d’ingresso verso una più profonda comprensione intuitiva capace di svelare una pienezza di significato ben superiore al mero esercizio della ragione. Ed è questa pienezza a cui si approda nel quinto e ultimo livello di manifestazione.
Infine il ricercatore Bhrigu “conobbe che il Brahman è beatitudine (ananda)”. E’ nell’incontro con la sfera della beatitudine che Bhrigu culmina il suo percorso iniziatico e scopre la sua più intima identità. In Anandamaya kosha la separazione avvenuta al livello di Vijnanamaya kosha – separazione necessaria per fare spazio ad una visione delle cose non inficiata dalla turbolente e inquinante attività del mentale che confonde, proietta e colora generando il sanyoga (l’identificazione tra colui che vede e ciò che è visto) – si ricompone in una superiore identità, in una esperienza di ricongiungimento, che non necessita di nessuna altra domanda ma solo di un atto di pura, estatica, partecipazione (samadhi).
2_I panchamaya kosha e il ruolo del corpo nella pratica dello yoga.
Nella Taittirya Upanishad – come abbiamo visto – viene presentata una visione del corpo inteso come sfera, livello di manifestazione dell’Essere-Coscienza. Da qui la risposta alla nostra domanda iniziale.
Corpo fisico, energia, pensieri, convinzioni e credenze, tutto questo è maya-kosha, tutto questo rappresenta la dimensione del corpo nello yoga in quanto manifestazione della Coscienza. Il modello dei panchamaya kosha ci insegna che il riferimento al corpo nello yoga è di natura olistica e multidimensionale. E’ proprio in questa concezione “allargata” del corpo – o se meglio vogliamo dire, nel recupero di uno sguardo ampio sull’essere e sulle diverse espressioni dell’essere dell’uomo – che risiede a nostro giudizio la forza di questa disciplina.
Il tema del corpo così inteso apre ad una ricchezza di significati nella quale la distinzione tra ciò che è materiale e ciò che è spirituale si perde in una gradualità di esperienze che dal denso porta al sottile in direzione – ci rammentano gli insegnamenti – della natura intima delle cose.
Quello che si prospetta al praticante di yoga dunque è un percorso a ritroso, di intima “risalita”; un percorso che dall’esterno volge verso l’interno, nel quale ogni livello di manifestazione viene riconosciuto e armonizzato – affinché non sia più di ostacolo ma veicolo del processo – e infine superato.
Se il mio corpo fisico è dolente, se la mia schiena o la mia cervicale è sofferente, avrò presumibilmente grandi difficoltà a sedermi in silenzio e raggiungere un assorbimento meditativo. Sarà necessario prendersi cura di Annamaya Kosha prima di procedere oltre. Se mi sento stanco o in una condizione generale di astenia, per evitare di addormentarmi o che la mia mente vaghi senza meta, prima di sedermi in meditazione sarà di grande aiuto compiere delle azioni specifiche che coinvolgano il corpo fisico e il respiro – attraverso pratiche di vinyasa/asana , pranayama, kriya -, affinché questo nuovo afflusso di energia sia di supporto al processo di stabilizzazione della mente che fa da sfondo ad una reale pratica meditativa. O ancora, se sono in uno stato di eccitazione, esuberanza e la mia mente è iperattività, troverò giovamento da pratiche calmanti, radicanti e riequilibranti prima di procedere oltre, in quel viaggio di esplorazione della Coscienza a cui risponde la pratica dello yoga.


Alcuni esempi di asana per preparare il corpo fisico, pranico e mentale alla meditazione.
Il modello dei panchamaya kosha e ruolo del corpo nella pratica yoga
Il modello dei panchamaya-kosha, oltre a fornirci una risposta alla nostra domanda di apertura, ci illumina sulla direzione da dare al processo yoghico. Ed è solo recuperando il senso di questo percorso, di questo viaggio interiore in cui il corpo fisico è messo al servizio di una finalità non fisica, che si può riconoscere il senso di una disciplina che ha il sapore di una vera e propria forma di gnosi, di conoscenza che ci coinvolge in ogni fibra del nostro essere.
(to be continued..)
[1] Unpanishad. Antiche e medie, Torino, Bollati Boringhieri, 1960, pag. 380