RIFLESSIONI SULLO YOGA#2

Dal Sanyoga al Viyoga.

Aprire la breccia, fare spazio alla visione

a cura di Andrea Gabbi

 

 

                                                                                        Conosci Me come il Conoscitore in ogni campo, Arjuna.

                                                                                        La conoscenza del campo e del Conoscitore del campo

                                                                                                     è ciò che Io considero come la vera conoscenza.

                                                                                                                                                 (Bhagavadgita, XIII.1)

 

Nel precedente articolo abbiamo introdotto duhkham, l’esperienza fondamentale di disallineamento che segna le nostre vite e richiamato il senso del ritorno all’ora (atha), primo passo per uscire da dhukham.

Nell’ora lo spazio temporale creato dalla nostra mente, uno spazio spesso segnato da un senso di separazione e mancanza, si dissolve. Nell’ascolto del presente, della verità di cui sono portatori il corpo e il respiro, la contrazione generata da dhukham si allenta e la vita può tornare ad aprirsi. (leggi qui l’articolo precedente)

Ma come  interrompere lo stato della mente ordinaria identificata con i suoi ridondanti automatismi e rendere questa esperienza di presenza continua nel tempo?

 

Coltivare il discernimento.

Nel secondo libro di YogasutraSadhana Pada Patanjali ci fornisce una indicazione molto interessante, mettendoci in guardia da un fraintendimento nel quale molto spesso inciampiamo; un errore prospettico     – profondamente legato alla nostra condizione di esseri sensienti e causa di sofferenza – nel quale smarriamo la corretta visione delle cose:

                                                  drashtri-drishyah sanyoga heya-hetuh (PYS II.17).

                                     L’identificazione tra l’osservatore e l’osservato è causa di sofferenza.

 

E’ necessario – suggerisce Patanjali – prendere consapevolezza ed evitare (hetuh) in quanto causa di sofferenza, di identificare (sanyoga) la sfera di colui che osserva (drashtri) e quella di ciò che viene osservato (drishyah).

Immaginiamo un grande acquario naturale, collegato ad una sorgente di energia e ricco di diverse specie animali e vegetali: possiamo immaginare drishyah – l’osservato – come tutto ciò che abita il nostro acquario  (le diverse specie di pesci, le sfumature di colore, le varie forme di vegetazione, il movimento dell’acqua…); mentre drashtri come l’acquario, – il contenitore – quel grande spazio nel quale gli esseri  marini possono esistere e nutrirsi.

Nel nostro stato di coscienza ordinario l’acquario (drashtri ) viene confuso con i suoi più o meno piccoli abitanti (drishyah) e smette di venir riconosciuto per la sua natura di contenitore alimentato da energia. Quando non riusciamo a cogliere la distinzione che c’è tra il “me” osservatore  e i diversi fenomeni che attraversano la mia coscienza siamo nel sanyoga.

Così, un pensiero preoccupante può diventare un’ossessione, un’emozione negativa può trasformarsi in depressione o generare comportamenti violenti, un ricordo spiacevole può adombrare le nostre giornate, un insuccesso può tradursi in un giudizio severo sul nostro valore e quel valore negativo che ci siamo attribuiti condizionare i nostri comportamenti e, nel tempo, definire l’immagine che abbiamo di noi stessi.

Quando siamo nel sanyoga lo spazio interiore conosce una contrazione, una riduzione alla forma che di volta in volta si manifesta nel campo (drishyah) – un dolore fisico, un pensiero negativo, un’emozione, una narrazione, un vissuto, un ruolo sociale o professionale – generando la falsa credenza di essere il contenuto del nostro guardare e del nostro percepire, come uno specchio di acqua limpida appare essere l’immagine che su di esso si riflette.

Falsa identificazione. Sovrapposizione di drashtri e drishyah

Dal sanyoga al viyoga. Aprire la breccia, fare spazio alla luce.

Per qualcuno è più forte l’identificazione con il corpo, per qualcun altro l’identificazione con le emozioni e dunque con la sfera del sentire, per altri quella con il pensiero: cambiano le forme, le sensibilità, ma la sostanza non cambia, l’errore di fondo, il sanyoga, rimane lo stesso. E che cos’altro è questo sanyoga, letto con uno sguardo ampio, se non il prodotto di un attaccamento (moha) ad una immagine emotiva – positiva o negativa, piacevole o spiacevole che sia – di noi stessi, degli altri e del mondo, un’impressone a tal punto radicata, e spesso inconsciamente ricercata, da giungere a definire o a rinforzare l’idea di chi siamo?

 

Prendere consapevolezza di questo tranello e spezzare l’identificazione con la forma condizionata – processo di separazione che Patanjali chiama viyoga – è la via per uscire dalla sofferenza e raggiungere lo stato di yoga.

La posta in gioco è alta. Oltre le immagini prospettiche e condizionate che vorticano nella nostra mente, le paure e le aspettative che alimentano le nostre emozioni e motivano i giudizi su di noi e sul mondo, oltre la contrazione egoica con cui tenacemente ci identifichiamo, c’è – affermano i testi – l’incontro con la Coscienza (Purusha, nel linguaggio dello yoga), quella intelligenza luminosa auto-generantesi (sva-bhasa) che illumina la vita.

 

L’errore di fondo.

Quando Patanjali parla di vi-yoga, di separazione tra Colui che vede (drashtri)  e ciò che è visto (drishyah),  tra il Conoscitore (kshetrajna) e il campo (Kshetra) – come si recita nella Bhagavadgita – , non si sta parlando di separare l’”Io-me stesso”, da ciò che l’ “Io-me stesso” sta guardando. L’”Io-me stesso” non è il Colui che osserva, non è l’Osservatore: pensare che lo sia è l’errore di fondo.

Patanjali ci sta suggerendo una visione forte, radicale: l’”Io-me stesso” (ahamkara)  è a sua volta un’immagine, anche lui è un fenomeno condizionato, parte degli oggetti osservati, oggetto tra gli oggetti di coscienza. Anche lui è un’illusione prospettica.

E i dolori, le frustrazioni , le inquietudine che tutti viviamo (sarvam dhukham) sono agganciate a questa visione prospettica alimentata da un senso di mancanza, imperfezione, carenza e di ricerca costante di essere altro, proprio della natura dell’Io.

Un percorso di conoscenza e di autentica liberazione (moksha), non può limitarsi (esclusivamente) a mettere sotto la lente di ingrandimento il nostro Io. Districandosi tra le maglie dell’Io si giunge ad un punto in cui si comprende la necessità di una svolta, di un vero e proprio cambio di direzione, verso una dimensione che non è più Io ma che si apre aldilà dell’Io: un cambio di rotta senza il quale non possiamo che rimanere imbrigliati nella trappola.

Immagine di Krishna/Kshestrajna: il Conoscitore del campo nella Bhagavadgita:

Dal sanyoga al viyoga. Fare breccia, fare spazio alla visione.

 

Ritrovarsi oltre la frammentazione a ristabilire la relazione.

Come in una stanza di specchi la visione completa di ciò che siamo è continuamente rotta dalle diverse prospettive incomplete che ci vengono restituite, così la nostra ricerca, se ridotta e appiattita (sanyoga) all’immagine che di volta in volta si riproduce nel nostro campo d’osservazione, è destinata a fallire.

Uscire dall’identificazione con la forma riflessa, prendere coscienza del, e superare il, sanyoga, separare drashtri  da drishyah, kshetrajna  da Kshetra, non significa cancellare la relazione con la forma, con i fenomeni, con i vari aspetti di noi stessi ma porre la relazione con questi nella giusta prospettiva.

Non significa smettere di avere un corpo con i suoi bisogni, delle emozioni, dei pensieri e punti di vista; smettere di percepire, provare, pensare, agire; non significa smettere di abitare il mondo celandosi dentro un monadismo asfittico, in un ideale ingannevole ed egoico di autarchia, ma coltivare la visione, il riconoscimento della presenza anche di altro, di quell’altro che, come la luce per lo specchio, è Fonte di visione.

Gli insegnamenti ci invitano a scoprire un nuovo spazio interiore, la possibilità di una nuova relazione con i molteplici oggetti che costituiscono il nostro mondo, a partire dal riconoscimento e dallo scioglimento di quei vincoli interiori che restringono il nostro campo (drishyah, Kshetram) e alimentano afflizione e mancanza.

L’uscita dal sanyoga non è una mera esperienza speculativa ma un vissuto esistenziale che ci coinvolge integralmente: un sentiero  attraverso il quale, mentre sviluppiamo la capacità di riconoscere, discutere e lasciar andare gli oggetti delle nostre afflizioni (i coni d’ombra che fanno della luce l’immagine allo specchio?) che nutrono il sanyoga e contraggono lo spazio interiore, accediamo – come scritto nella Kena Upanishad – alla presenza di:

Ciò che non può essere visto con gli occhi, ma per cui gli occhi possono vedere (…). Ciò che non può essere ascoltato con le orecchie ma per cui le orecchie possono ascoltare (…). Ciò che non può essere pensato con la mente, ma per cui la mente può pensare (…).

Alla presenza di quell’Altro che non è più oggetto di mancanza ma dono di Presenza.

(to be continued)

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